La programmazione didattica delle università, complice la pandemia, nell’ultimo biennio ha subito un profondo cambiamento. Analogamente a quanto accaduto per il mondo produttivo, che ha dovuto ridisegnare assetti organizzativi e processi consueti per fronteggiare i vari lockdown e la remotizzazione di gran parte dei lavoratori, la programmazione didattica universitaria è stata sollecitata ad abbracciare un modello ibrido che consentisse la continuità nello svolgimento delle attività accademiche. Non solo, quindi, la popolazione studentesca è stata messa in grado di poter accedere ai servizi anche a distanza, ma anche il personale docente e quello amministrativo sono stati coinvolti in questa trasformazione. Una trasformazione sostenuta anche dal legislatore, come si ricava ad esempio dal Decreto Ministeriale n. 435 del 6 agosto 2020 nel quale si legge che il ministero dell’Università e della Ricerca “ha fornito alle Istituzioni della formazione superiore e della ricerca le indicazioni per una programmazione condivisa e coordinata finalizzata a fronteggiare le fasi successive dell’emergenza epidemiologica”.
In base a quanto riporta il Decreto, la programmazione didattica universitaria deve essere articolata nelle seguenti 5 azioni:
Probabilmente è grazie a queste indicazioni, accompagnate dalle misure eccezionali di sostegno del diritto allo studio introdotte con il Decreto Rilancio del 2020, che il temuto crollo delle iscrizioni alle università del nostro Paese non è avvenuto. Anzi, si è assistito nell’anno accademico 2020-2021 a un incremento delle immatricolazioni pari a +4,4%, come riporta l’ultima classifica sulle università realizzata dal Censis. La classifica consiste in un’analisi composita del sistema universitario basata sulla valutazione degli atenei, statali e non statali, che prende in esame diverse aspetti quali strutture disponibili, servizi erogati, borse di studio, livello di internazionalizzazione, comunicazione e servizi digitali, occupabilità. Se si considerano gli atenei che occupano i primi posti nelle rispettive categorie (mega, grandi, medi, piccoli atenei statali e non statali, nonché politecnici) è soprattutto uno l’indicatore che incide sul loro posizionamento: comunicazione e servizi digitali. Segno che nella programmazione didattica odierna rappresenta un elemento che ricopre carattere distintivo.
Nella nota metodologica a corredo della sua classifica, il Censis spiega che il punteggio relativo a comunicazione e servizi digitali deriva “dall’analisi delle caratteristiche e delle funzionalità dei siti web di ateneo, dei rispettivi profili social ufficiali e dall’efficienza di risposta restituita da questi canali”. Si tratta, ovviamente, di una sorta di cartina di tornasole di una programmazione didattica erogata in modalità ibrida, poiché fa capire se l’interazione tra studente e università avvenga in maniera fluida ed efficace. A fondamento ci deve essere quel potenziamento delle infrastrutture digitali che supporti la didattica sia in presenza sia a distanza, nonché la dematerializzazione dei procedimenti amministrativi per tutte le attività di contorno. Solo così la programmazione didattica in chiave blended può diventare un’opportunità per tutti gli attori coinvolti, comprese le istituzioni universitarie. Tant’è vero che un’altra delle voci di maggiore rilievo per il Censis è quella dell’internazionalizzazione. Le università con un ranking più elevato spesso sono quelle che attirano più studenti anche dall’estero.