Nel complesso passato recente, uno dei soggetti che ha dimostrato maggior resilienza durante la crisi sanitaria è stata sicuramente la scuola, che ha reagito all’emergenza elaborando nuovi modelli didattici.
La didattica a distanza (DAD) ha messo in discussione la pedagogia dell’educazione, che vede nel rapporto umano insegnante-alunno/a, una parte determinante dell’azione formativo-educativa.
Facendo di necessità virtù, nei tempi della pandemia, le piattaforme didattiche, di vario genere e tipo, hanno visto il passaggio dalle aule fisiche a quelle totalmente virtuali, da online e onlife (parafrasando Luciano Floridi) a oggi, con uno scenario che richiama il ritorno in aula al 100%.
Ripercorrendo la storia, scopriamo, però, che la prima DAD ha un’origine lontana: dobbiamo fare un salto nel passato, esattamente ottantacinque anni fa.
Nel 1937 negli Stati Uniti - con una forte concentrazione nella città di Chicago - si diffonde in modo dirompente un’epidemia di poliomielite, che colpisce prevalentemente i bambini.
Il sovrintendente di una scuola e la sua collaboratrice si inventano, così, una didattica alternativa di emergenza, utilizzando uno strumento molto diffuso nelle famiglie: la radio.
Con un’innovativa operazione transmediale, la collaborazione tra le scuole pubbliche, le principali stazioni radio, le redazioni di quotidiani e le biblioteche locali dà vita a una forma primitiva di “didattica a distanza”.
L’istruzione radiofonica durò poche settimane, ma cambiò in modo significativo il ruolo della radio, che peraltro verrà impiegata come intermediario educativo agli inizi degli anni ’50 per coprire le lunghe distanze del territorio australiano. Con il progetto “School of the Air”, nato dall’iniziativa di Adelaide Miethke, educatrice, docente e filantropa, le ragazze e i ragazzi, dai 5 ai 14 anni, residenti in luoghi remoti dell’Australia, negli anni ’50 seguivano le lezioni attraverso la radio, in una modalità che perdura tutt’oggi, ovviamente via web.
La “School of the Air” è attiva da più di settant’anni e lo standard di insegnamento attuale prevede quaranta settimane di scuola all’anno, con la copertura dell’istruzione obbligatoria ma, per chi lo desidera, anche oltre, con un limite massimo alla fine della seconda superiore.
Un servizio straordinario, che riguarda una porzione di popolazione che sarebbe giocoforza destinata all’analfabetismo.
L’evoluzione del percorso della didattica a distanza – dalla radio al web - ha un cambiamento significativo nel passaggio da un’educazione passiva a una attiva, attraverso le moderne tecnologie, che permettono l’interazione mediata dagli strumenti tecnologici come pc, tablet o smartphone.
Arriviamo a marzo 2020. Le scuole sono costrette a una chiusura forzata e senza preavviso. Occorre inventarsi un nuovo modo di raggiungere le bambine e i bambini, le ragazze e i ragazzi e i giovani che frequentano il mondo accademico, con le tecnologie digitali che, fino a quel momento, erano state utilizzate, per lo più, dagli addetti al lavoro del mondo IT.
È una rivoluzione digitale trasversale, che copre tutte le dimensioni della vita: dalla scuola al lavoro fino alle relazioni sociali. Una trasformazione che non impatta solo sull’utilizzo di strumenti tecnologici più o meno noti, ma anche sui luoghi fisici. Siamo stati tutti protagonisti della “metamorfosi” di camere da letto in “uffici” e di cucine in “aule scolastiche”.
E se, come detto all’inizio, in alcune situazioni è necessario fare di necessità virtù, è altrettanto importante saper valutare i pro e i contro dell’innovazione, tenendo sempre in considerazione che, in un utilizzo percentuale da 0 a 100, ci sono tante possibilità di scelta intermedia, che rispecchiano un uso intelligente della tecnologia e qualificano la DAD come strumento e non come fine educativo.
I pro della DAD sono sicuramente un’alfabetizzazione digitale estesa in modo trasversale nella società, perché l’educazione all’uso degli strumenti tecnologici non riguarda solo gli studenti, ma anche gli educatori e i genitori, con possibilità di coprire i gap generazionali rispetto all’uso delle tecnologie. Oggi avere un indirizzo mail è condizione sine qua non per fare pressoché tutto. Un secondo pro importante è la possibilità di abilitare allo studio anche chi non può muoversi per disabilità invalidanti. Terzo, la copertura delle emergenze e dei casi straordinari.
Sui contro vengono considerate discipline come la pedagogia, la psicologia e la sociologia che sollevano le questioni dell’umanità e del bisogno di relazione degli individui. Perché la DAD fa perdere alla scuola uno dei compiti più importanti: la socializzazione, quell’apprendere il saper “vivere” nella società, con tutti i suoi variegati ruoli, che va oltre le discipline scolastiche e che copre la sfera delle relazioni.
Ultima, ma non per importanza, la necessità di formazione sull’uso degli strumenti, che spesso viene saltata a piè pari.
Ma qual è allora la scelta corretta, tra DAD sì e DAD no? È una DAD ben realizzata, che si concretizza cominciando ad andare oltre gli estremi. Come? Magari con forme ibride di educazione, che permettano le lezioni a distanza con una valutazione delle condizioni specifiche dei fruitori; è il caso, ad esempio, degli studenti universitari che per motivi di salute o di condizione fisica non possono frequentare le lezioni dal vivo. In questo senso, la didattica a distanza si fa veicolo non solo di resilienza ma anche di inclusività. E ancora: con un utilizzo consapevole della tecnologia, mezzo potentissimo ma che non sostituisce le relazioni fondamentali che la scuola crea da sempre. La DAD costituisce un potente strumento al servizio dei sistemi e dei processi di apprendimento, ed è tenuta ad amplificare la forza che la scuola, in termini di costruzione di relazioni, crea. La Didattica a Distanza dovrebbe, dunque, essere adoperata e sfruttata nelle sue peculiarità e possibilità, come strumento e non come fine ultimo dell’educazione.